“T’avances, des autres tu n’attends rien. Solitaire tu navigues en brise-glace et tu traces ton chemin, traces ton chemin.”
“Avanzi. Dagli altri non ti aspetti nulla. Solitario navighi in una nave rompighiaccio e tracci la tua strada, tracci la tua strada.”
I versi del gradevole pezzo “Trace ton chemin”, cantati dalla deliziosa artista franco-bretone Nolwenn Leroy, Didier Deschamps potrebbe anche cucirseli addosso, con una certa dose di orgoglio, a decoro della seconda stella appena conquistata sotto i cieli nebulosi di Mosca. Le critiche mosse nei confronti dell’ex-capitano transalpino, dovute alla pochezza di beau jeu messa in luce dalla sua nazionale, in rapporto alle potenzialità qualitative e al talento di Pogba & Co., sono fioccate da ogni dove, come pollini in primavera, dalla Francia al resto del mondo calciofilo, spesso con troppa superficialità. Ci sarebbe da chiedersi – in realtà non solo da ora, non a posteriori – quanto veramente conti, in termini pratici, l’estetica organica del proprio gioco, finalizzata alla costruzione tramite il palleggio, in rapporto all’obiettivo della vittoria ultima, in questa competizione come in altre. In un torneo vissuto ad alta intensità, giocato tra giugno e luglio e stritolato nell’arco temporale di poche settimane, dove spesso è l’aleatorietà degli episodi a prevalere, il concetto di bellezza appare quantomeno forzato. Con la spettacolarità del palleggio si può vincere, ma la vera armonia è l’unità degli intenti, l’organizzazione pratica. Questa, se supportata da giocatori tecnicamente superiori, formati non a caso – la tecnica individuale sviluppata al servizio del collettivo, non viceversa – ma all’interno di una settata programmazione gestionale, si traduce il più delle volte in legittimazione della vittoria. La Francia di Deschamps ha vinto la Coppa del Mondo perché si è rivelata, oltre che tecnicamente dotata, la squadra più organizzata verticalmente, in un Mondiale dove, appunto, l’organizzazione tattica ha giocato un ruolo dominante, tra tutte le partite dei gironi e fino alla finale del Luzhniki di Mosca, dando luce ad esiti sorprendenti, débâcle impensabili e vittorie su cui nessuno avrebbe probabilmente scommesso un sol centesimo.
E’ in quest’ottica che andrebbe considerato il divertimento provato nel vivere, giorno dopo giorno, una manifestazione che si è rivelata globalmente competitiva, aperta ad ogni pronostico, dove il livello qualitativo del gioco organizzato, anche da parte di quelle “piccole” nazionali, come per esempio Marocco o Giappone, è apparso superiore rispetto al passato. Gli esempi più clamorosi forse sono stati quelli di Russia e Svezia. Se la prima nazionale aveva dalla sua l’innegabile vantaggio e l’entusiasmo di giocarsi un mondiale tra le calde mura casalinghe, la Svezia di Jan Andersson ha spiegato al mondo intero che con disciplinato atteggiamento tattico, come quello improntato sul suo classico 4-4-2, si può arrivare anche ai quarti di finale contro ogni pronostico. Lo stesso potrebbe affermare la Danimarca, eliminata agli ottavi dalla Croazia, ma solo ai calci di rigore. Un altro aspetto fondamentale, che ha tracciato le dinamiche di molti incontri di questo mondiale, è quello dell’attenzione maniacale alle situazioni su palla inattiva: calci di punizione, calci d’angolo, calci di rigore. Anche sotto questa luce, la Francia è tra le nazionali che hanno fatto più tesoro dei calci piazzati per ottenere pieno bottino, così come la sorprendente Inghilterra di Southgate. Il fascino dei Mondiali è principalmente quello di allargare la lente della storia, di scandire l’esistenza in cicli temporali di quattro anni, e la realtà, per come si è svolta in Russia, sembrerebbe dirci che il gioco del pallone sembra aver preso definitivamente le misure dalle interpretazioni tattiche esaltate dalla Spagna e dalla Germania nelle ultime due manifestazioni iridate. Deschamps non si è fatto abbindolare da chi forse sperava di vedere una Francia formato Spagna 2010, plasmando la (elitaria) materia prima a propria disposizione in una macchina letale che ha fatto delle potenti verticalizzazioni la propria forza, proprio come una nave rompighiaccio, sacrificando il dilettevole per l’utile (anche se questo, forse, è sempre opinabile). La solidità difensiva (leggasi Umtiti, ma anche Lucas Hernandez), l’abilità sui calci piazzati (leggasi Griezmann), la dote di spaccare le partite (leggasi Mbappé, ma anche Pogba e i suoi micidiali lanci a campo aperto): tutto ciò ha formato una squadra solida, forse non esteticamente bella, ma che non ha mai dato segni di cedimento, nemmeno nelle situazioni di difficoltà, come i primi 20 minuti ad alta intensità della Croazia nella finale di Mosca. Il maggiore merito di Didier è stato quello di mettere le principali qualità dei suoi giocatori al servizio del pragmatismo del campo, ed oggi la Francia è campione del mondo proprio per questo, dopo aver vinto il girone col minimo sforzo e aver collezionato gli scalpi, nei turni eliminatori, di Argentina, Uruguay e Belgio: per la strada che Deschamps ha scelto di intraprendere. Le altre, dalla Spagna alla Germania passando per il Brasile e l’Argentina, ciascuna per motivi (più o meno) diversi, hanno tutte fallito. Nessuna esclusa.
Ma Russia 2018 è stato anche il Mondiale del Belgio e, in parte, quello dell’Inghilterra. La nazionale di Roberto Martinez ha goduto di un Hazard in una forma straripante. Il pallone d’oro della competizione è stato assegnato ad un Modric che ha già raggiunto l’apice della sua carriera e che, soprattutto, ha trascinato la sua meravigliosa (e stremata) Croazia fino alla finale, ma probabilmente è stato il belga il vero protagonista di questo torneo, giocato su elevatissimi piani di intensità e qualità, che non esibiva da diverso tempo. La Coppa del Mondo era partita con l’eterno duello a distanza tra Ronaldo e Messi: se il portoghese si è esaltato nelle prime due partite del girone, la disorganizzazione tattica (e non solo) in cui sembra essere sprofondata l’Argentina del disastroso Sampaoli ha risucchiato anche il 10 di Barcellona. Il Brasile, per molti – quantomeno all’inizio – accreditato come la vera favorita di questo torneo, si è dovuto arrendere alla dirompenza di un Belgio più organizzato, con più qualità a centrocampo, figlio di un lavoro tecnico lungo 20 anni, e che porterà più prestigiosi risultati nel futuro. Forse un pizzico immeritatamente, ciò che verrà principalmente ricordato del Mondiale dei Verdeoro saranno le buffe simulazioni di Neymar, più flebile comparsa che altro tra le lande russe. Il guantone d’oro va indubbiamente a Jordan Pickford, uno degli eroi dell’Inghilterra classificatasi come quarta (esattamente come ad Italia ’90), senza dimenticare lo strepitoso mondiale disputato da Thibaut Courtois, in questo momento, insindacabilmente, il n. 1 al mondo. La clamorosa leggerezza di Lloris nella finalissima contro la Croazia ha, di fatto, macchiato un Mondiale che fino a quel momento, per il portiere del Tottenham, aveva rasentato la perfezione. E poi scene, momenti, episodi e volti che rimarranno per sempre impressi nella memoria storica calcistica mondiale, che scorrono veloci come intensi ricordi: la vittoria della già eliminata Corea del Sud che ha sancito la clamorosa e prematura uscita della Germania dai Mondiali, il gesto dell’aquila di Xhaka e Shaqiri nella partita della Svizzera contro la Serbia, il fotografo dell’Agence France Press travolto dall’esultanza dei giocatori croati, il primo gol di Panama ai Mondiali contro l’Inghilterra, la commovente figura in stampelle di Oscar Tabarez sulla panchina dell’Uruguay, la colorata e folkloristica speranza inglese di “riportarla a casa”, il record del 45enne portiere El Hadary, il più anziano della storia della manifestazione iridata a scendere in campo. Infine, ultimo ma primo, il volto di Kylian Mbappé, il vero protagonista di Russia 2018, avvicinatosi prepotentemente a due record che appartengono niente meno che a Pelé (a Pelé!), segnando una doppietta nei turni a eliminazione diretta e un gol in una finale Mondiale a 19 anni. Ma, soprattutto, autore di prestazioni travolgenti, anche per merito di Deschamps, la cui principale bravura è stata quella di cedergli quella libertà di movimento a lui più congeniale all’interno di questa Francia solida ma sfrontata, difensiva ma esplosiva, dall’animo profondamente urbano, moderno, fluido e multiculturale. La Francia di Pogba, Griezmann, Mbappé. Il cammino è tracciato.