Home Calcio 360º Oscar Washington Tabarez: “el Maestro” che sta facendo emozionare il mondo del calcio

Oscar Washington Tabarez: “el Maestro” che sta facendo emozionare il mondo del calcio

by Redazione Sport Time Calabria

Per inquadrare in maniera netta e definita la figura di Oscar Washington Tabarez basterebbe un dato, o meglio, un numero: 195. La cifra corrisponde al novero di partite in cui El Maestro di Montevideo si è seduto sulla panchina dell’Uruguay, comprese le ultime uscite in Coppa del Mondo, al netto dell’imminente quarto di finale contro la Francia, che farebbe 196. Si tratta di un numero impressionante e, soprattutto, unico: è record assoluto, nessuno mai come Tabarez alla guida di una sola nazionale. Fino al giorno d’oggi e per tanto tempo ancora: seguono infatti Sepp Herberger con 167 e Morten Olsen con 166; Joachim Low, attuale CT della Germania, si è momentaneamente fermato a quota 165. Possa scusarci chiunque abbia appena storto un po’ il naso: gli allenatori, e in particolar modo le persone, non si possono classificare in base ad un singolo dato, ma nel caso di Tabarez questa cifra assume ampiezza di significato, facendoci intuire che non si tratta di un personaggio sportivo qualunque ma un unicum nella lunga e complessa storia del calcio.

Altri due particolari fatti, messi a confronto in termini storici, appaiono rilevanti per delineare i contorni della filosofia del tecnico uruguaiano, nonché per fotografare al meglio il lungo flusso di cambiamento che ha caratterizzato la piccola nazionale del Sudamerica nel corso di tre decenni. La fama del gioco irruento e violento dell’Uruguay scoppiò infatti in maniera “ufficiale” nel 1986, nel corso dei gironi dei mondiali targati Messico ’86, quando José Batista venne espulso dall’arbitro dopo appena 56 secondi di gioco, per essere intervenuto in tackle duro sullo scozzese Gordon Strachan. Il CT di quella nazionale era Omar Borras, particolarmente noto per lanciare polemiche al veleno, pesanti come macigni, che altro non fecero se non peggiorare la già pessima reputazione della nazionale bi-campione del mondo. L’infausta fama della Celeste è in un certo senso perdurata finanche ai giorni nostri, almeno fino a quando un particolare traguardo ha esposto alla luce del sole la nuova realtà dei fatti: nel 2011, la nazionale di Oscar Tabarez ha conquistato la Copa America, il traguardo sportivo più importante del calcio uruguaiano dagli anni ’80, guadagnandosi per giunta il Fair Play Award della competizione. Nell’attuale mondiale russo, l’Uruguay ha all’attivo un solo cartellino giallo, rimediato da Rodrigo Bentancur contro la Russia. Due estremi di uno spettro che nel corso di questi anni è profondamente mutato, specialmente a partire dal 2006, anno dell’inizio del secondo ciclo targato Oscar Tabarez, che perdura ininterrottamente e felicemente fino a queste ore.

Il soprannome El Maestro non è causale, come sempre in Sudamerica: laureato in lettere all’Università di Montevideo, amante della letteratura, di Eduardo Galeano e di Che Guevara, Oscar Tabarez, terminata l’università, aveva in mente di intraprendere una tranquilla carriera sui banchi di scuola, almeno fino a quando il richiamo del futbol non è stato troppo forte. Il giovane Oscar, conclusa – a 32 anni – una mediocre carriera di stopper tra Argentina e Messico, aveva cominciato a divincolarsi tra le aule di scuola elementari e degradati campetti di periferia, insegnando ai ragazzini di Montevideo l’arte della vita e del pallone. Nel 1980 arrivò l’occasione di allenare un club di Montevideo, il Bella Vista, mentre il primo importante successo giunse nel 1983, quando El Maestro vinse i Giochi Panamericani con la selezione Under 20 dell’Uruguay. Per il giovane allenatore-insegnante si aprirono dunque le porte del grande calcio uruguaiano: nell’84 arrivò la chiamata del Montevideo Wanderers, mentre nell’86 quella del Penarol, il club più vincente del piccolo stato incastonato tra Argentina e Brasile: con gli Aurinegros, Tabarez vinse la Copa Libertadores, nel 1987, battendo in finale l’America di Cali. La prima vera, grande soddisfazione di una carriera che, tuttavia, era ancora nella sua fase embrionale, per tempistiche e filosofia.

In quel periodo l’Uruguay era appena uscito dagli anni bui del fascismo e di un governo di stampo militare, sul modello di quelli argentini, durato dal 1973 al 1984: un abbondante decennio che ha lasciato cicatrici profonde nella storia di tutti gli uruguaiani dell’epoca, Tabarez incluso, intellettuale di sinistra. In molti sostennero che la nazionale di calcio di quegli anni era figlia stessa del periodo nero della storia del piccolo paese. Dal 1982 l’allenatore della Celeste era Omar Borras, che aveva il compito di riportare il calcio uruguaiano ai fasti degli anni ’30 e ’50. Borras cominciò bene la sua avventura sulla panchina dell’Uruguay, vincendo nel 1983 la Copa America e qualificandosi per i Mondiali dell’86, con una nazionale che schierava anche il talento di Enzo Francescoli. Tuttavia, quell’Uruguay, più che per i suoi successi divenne ben presto famoso per il modo di giocare ruvido e violento, che in qualche modo rifletteva la personalità del suo CT e la situazione politica e sociale del proprio paese: gli anni di Alcides Ghiggia e Alberto Schiaffino apparivano irrevocabilmente lontani, sia da un punto di vista temporale che ideale. L’atteggiamento di Borras, le frasi al veleno e le polemiche particolarmente accese nel corso delle partite della manifestazione iridata messicana contribuirono a far scendere la reputazione del calcio uruguaiano ai minimi storici; fu così che, dopo l’eliminazione agli ottavi di finale contro l’Argentina, la federazione uruguaiana diede il benservito a Borras e, nel 1988, decise di ingaggiare il giovane maestro di Montevideo, fresco vincitore della Libertadores con Penarol, per dare un boost alla nomea del calcio dell’antico popolo Charrua.

La filosofia di Tabarez era semplice: lavoro, modestia, studio, riflessione. Il fine ultimo non era il risultato, ma la creazione di un progetto, di un ideale da perseguire, di un’utopia alla quale avvicinarsi. Si trattava di concetti umili e ragionati, ma che necessitavano di un ampio intervallo di tempo affinché potessero attecchire e disarcionare la mera logica del risultato. La filosofia applicata al calcio trova in Sudamerica il suo terreno più fertile, ma in pochi, pochissimi, sono riusciti a effettuare questa trasposizione, nella storia recente del futbol, in maniera così graduale, ragionata e, soprattutto, efficace come Oscar Tabarez. L’avventura del Maestro alla guida della nazionale uruguaiana cominciò con un’eccellente campagna di Copa America, nel 1989, interrotta solo nella finale, quando il Brasile si prese la sua personale rivincita al Maracanazo del 1950. Conquistata la qualificazione ad Italia ’90, l’Uruguay si qualificò alla fase eliminatoria ma nella sua strada incrociò l’Italia padrone di casa, che eliminò la nazionale di Tabarez agli ottavi di finale.

A questo punto Tabarez decise di concludere l’esperienza come selezionatore della federazione Charrua per proseguire e, se possibile, accrescere il suo curriculum come allenatore di club. Nel ’90 si accasò in Argentina, al Boca Juniors, con cui vinse il campionato di Apertura nel 1992. L’episodio più clamoroso dell’esperienza albiceleste fu però la semifinale di Libertadores col Colo Colo del ‘91, quando il maestro di Montevideo rimase coinvolto in una rissa scoppiata tra giocatori, giornalisti e poliziotti, durante la quale il portiere degli Xeneizes, “El Mono” Navarro, venne addirittura morso da un cane della polizia cilena, Ron, che divenne una sorta di mascotte nazionale dopo che la compagine di casa sconfisse gli argentini con un aggregato di 3-2. Conclusa l’esperienza in Sudamerica, El Maestro provò a giocarsi le sue carte in Europa, nello specifico in Italia. Il Cagliari di Cellino scommise su di lui e sulle sue idee innovative; Tabarez impostò un’impronta tattica inedita – una sorta di 5-2-3 con un centrocampo particolarmente fisico e due potenti ali offensive – e accompagnò Dely Valdes e compagni al decimo posto nella classifica della Serie A 94/95, sfiorando la qualificazione alla Coppa UEFA. La positiva esperienza sarda gli valse la chiamata del Milan di Berlusconi, con il quale, tuttavia, non si accese mai la scintilla, forse perché tra le due personalità si frapponeva un abisso. Le stelle del Milan, tra cui Baggio e Savicevic, per giunta, non remavano nella stessa direzione dell’intellettuale di sinistra uruguaiano, forse troppo pacato e gentile nei modi per gestire un gruppo di primedonne. La relazione tra il Milan e Tabarez si spense dopo una sconfitta rimediata dai rossoneri per 3-2 contro il Piacenza, all’undicesima giornata della Serie A 96/97: l’allenatore uruguaiano venne allontanato dalla dirigenza rossonera, per poi proseguire la sua esperienza europea nella Real Oviedo, nella stagione 97/98, e concluderla l’anno successivo, ancora a Cagliari, dove durò solo una manciata di partite. Tornato in Argentina, guidò il Velez e il Boca, per poi fermarsi nel 2002. Sembrava la fine della sua carriera manageriale, il punto di non ritorno. Ma, appunto, il meglio doveva ancora venire, e doveva succedere a casa, in Uruguay.

“Quando produci un grande giocatore in Uruguay, questo equivale a 20 giocatori in Brasile e 10 in Argentina. Abbiamo solo poco più di tre milioni di abitanti e dobbiamo lavorare più in profondità a livello giovanile. Dobbiamo approcciare il gioco in maniera totalmente differente rispetto agli altri.” Quando, nel 2006, l’Uruguay richiamò sulla sua panchina Oscar Tabarez, la competitività della nazionale Celeste era ai minimi storici. Lo spareggio perso contro l’Australia, nel novembre del 2005, aveva negato all’Uruguay la partecipazione al mondiale per la terza volta consecutiva. Vi era bisogno di una rivoluzione silenziosa, un cambiamento di lungo periodo che caratterizzasse il futuro di una nazionale sempre più asfissiata dal dominio sudamericano di Brasile e Argentina. Tabarez era il profilo più adatto per apportare questo cambiamento, nonostante l’inattività manageriale che oramai durava da ben 4 anni. Le idee di Tabarez erano semplici e, nello stesso tempo, rivoluzionare. Non erano a breve termine, necessitavano di tempo, di molti anni, per dare i primi frutti. El Maestro portò ad una formalizzazione dell’intero sistema, a partire dall’Under 15 uruguaiana, passando per U-18, U-20 per poi arrivare alla prima squadra. Questa istituzionalizzazione venne chiamata “Proceso de Institucionalización de Selecciones y la Formación de sus Fútbolistas”, attraverso cui si implementò una precisa identità – tattica, ma non solo – all’intero sistema federale, ma anche un rinnovamento infrastrutturale. Quello di Tabarez non era più, dunque, un semplice ruolo di selezionatore: la sua figura incarnava un paterno coordinatore, che curasse ogni aspetto della vita del giovane calciatore uruguaiano. Si cominciava sempre e comunque da un concetto fondamentale, quello della garra charrua, perché è dalla propria identità che si deve sempre partire: non uno snaturamento dell’Io, dunque, ma una solida radice dalla quale poi crescere ed evolvere, stando al passo di un mondo pallonaro in continuo, perenne mutamento. Il calciatore uruguaiano di Tabarez verrà infatti esortato, conquistata la maturità, a prendere il largo, a sbarcare in Europa dove il calcio si gioca su altri ritmi, e quindi crescere a livello individuale, qualitativo, ma senza mai dimenticare le proprie origini uruguaiane, la propria identità charrua. Ecco che giocatori come Bentancur e Gimenez, rispettivamente in forza a Juventus e Atletico Madrid, rappresentano ora la nuova spina dorsale dell’Uruguay del settantunenne Tabarez ai Mondiali di Russia 2018, mentre De Arrascaeta è la certezza futura in un contesto di solide certezze (Godin, Cavani, Suarez). Bentancur e Gimenez, per altro, erano titolari nella formazione dell’Uruguay U-20 qualificatasi come seconda ai mondiali di categoria nel 2013, in Turchia. L’educazione del Maestro, non si basa, dunque, solo sulla tecnica individuale, ma più in generale su un contesto identitario che spinge il giovane calciatore a prendere coscienza della propria tradizione calcistica e culturale: è, in definitiva, il far parte di qualcosa di più grande, con una vasta storia alle spalle, come il retaggio calcistico uruguagio.

Il quarto posto ai Mondiali del 2010, la Copa America conquistata nel 2011 (la quindicesima della storia dell’Uruguay, record a livello continentale), la qualificazione a Brasile 2014 e a Russia 2018 sono solo le naturali conseguenze del Proceso instaurato da Tabarez. Per la terza volta consecutiva, l’Uruguay ha superato la fase a gironi: è record. Nei Mondiali in corso, le vittorie consecutive sono 4, e anche questo rappresenta un record dal 1954. Quasi tutti gli attuali elementi della rosa uruguaiana hanno esordito sotto Tabarez, figura che dunque è particolarmente amata nello spogliatoio. Attualmente, la Celeste appare una solida corazzata, compatta dalla difesa all’attacco, votata non solo ad una sempre coriacea tenuta difensiva ma anche ad una certa dose di qualità dalla cintola del centrocampo in su, dove Bentacur e Vecino dispensano tocchi e palloni alle stelle universali Cavani e Suarez.

El camino es la recompensa”. In una frase, la filosofia del Maestro, che in ogni conferenza stampa pre e post-partita dissemina perle di saggezza più che commenti tecnico-tattici. L’ideale, l’obiettivo da inseguire, il progetto per cui lavorare, all’orizzonte: un orizzonte che, tuttavia, non si raggiungerà mai, perché non vi sarà mai un punto di arrivo, ma solo il cammino, il pellegrinaggio costante dell’evoluzione. La visione di Tabarez è una visione storica, degna di un insegnante: l’Uruguay ha avuto grandi calciatori nel passato, remoto e recente, bisogna lavorare costantemente, continuamente, assiduamente e formalmente per produrre altri grandi giocatori, che possano competere sempre ai massimi livelli nel panorama calcistico internazionale. Anche oltre Tabarez. E per farlo bisogna partire fin dal principio, dall’età della pubertà, quando talento e personalità sono grezzi e vanno scolpiti, potenziandone l’identità umana prima che la qualità tecnica. È un processo storico, continuo, che va costantemente curato con le giuste dosi di durezza e tenerezza, e che nemmeno una malattia neurodegenerativa può arrestare, ora e per sempre.

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