Il castello di Montjoye, incastonato nei pressi della foresta di Rambouillet, a circa 50 chilometri a sud-ovest di Parigi, appartiene a quella costellazione di edifici fiabeschi che impreziosiscono il cuore della Francia aristocratica dei tempi andati, dalla spumeggiante Reims fino all’estuario dell’imponente Loira, evocando, nell’immaginario del visitatore di turno, rimandi fiabeschi di vite nobiliari e regali, battute di caccia e ricevimenti fastosi, frutto per lo più di reminiscenze di fanciullesche letture, o di pesanti tomi di storia svogliatamente sfogliati tra i banchi di scuola. Un tempo padiglione di caccia, lo Château sonnecchia pacatamente nella boscosa frescura di Clairefontaine-en-Yvelines, nella regione dell’Île-de-France, e – in un certo senso – si prodiga ancora nel non facile compito di accogliere una nuova, stravagante schiera di “aristocratici”, non proprio di nobile schiatta, forse, ma comunque di sangue blu, o per meglio dire Bleu, se è vero che il gruppo è generalmente riconosciuto, a livello globale, come Les Bleus. E’ qui, tra le mura del castello di Montjoye, a Clairefontaine, che i giocatori della nazionale francese, l’élite del movimento calcistico transalpino, si radunano ormai da tre decenni per prepararsi ai ciclici impegni calcistici internazionali, ed è sempre qui che un manipolo strettamente selezionato di ragazzini, la cui età va dai 13 ai 15 anni, può aver l’onore di ammirare da vicino, anzi da vicinissimo, quella banda di baldi eroi sportivi, permettendosi di sognare ad occhi aperti il proprio futuro, a patto di lavorare sodo sotto l’occhio vigile degli esigenti tecnici federali. Lo Château, che ora è di proprietà della Fédération Française de Football, più comunemente conosciuta con l’acronimo di FFF, è solo il cuore dell’enorme centro tecnico federale di Clairefontaine, un complesso che vanta già 30 anni di storia (è stato inaugurato nel 1988 dall’allora presidente francese François Mitterand) ma che risulta essere ancora all’avanguardia, tanto da essere tutt’oggi consensualmente riconosciuto come culla/accademia di riferimento del calcio europeo moderno, alla quale tutte le più importanti scuola calcistiche del continente hanno preso ispirazione, La Masia di Barcellona inclusa.
La radice è, come sempre, di matrice olandese. Nel 1973 Fernand Sastre, presidente della FFF, affidò la guida tecnica della nazionale transalpina a Ștefan Kovács, leggendario allenatore rumeno reduce da un biennio stratosferico sulla panchina dell’Ajax del Totaalvoetal, con il quale vinse due campionati olandesi e due Coppe dei Campioni consecutive, oltre che la Coppa Intercontinentale nel 1972. Kovács prese le redini di una Francia che mancava da qualsivoglia grande appuntamento dal 1969, anno della dolorosa eliminazione, per mano degli svedesi – ognuno ha la sua Svezia – nelle qualificazioni per i mondiali di Messico ’70. Il rumeno non portò trionfi alla nazionale transalpina (che rimase a digiuno di competizione internazionali fino al 1976) ma pose le basi strutturali per il successo continentale del 1984 a firma del CT Hidalgo, coltivando quella che successivamente divenne la generazione dei talenti di Platini e Giresse ma, soprattutto, fornendo le idee necessarie a Fernand Sastre per l’istituzione delle infrastrutture necessarie per formare una grande nazionale del futuro, che potesse contare su solide basi per crescere e stabilizzarsi come una potenza europea per molti anni a venire. Sastre inaugurò inizialmente, a Vichy, l’Institut National de Footbal (INF), arruolando i talenti più cristallini del paese transalpino e lavorandoli soprattutto sotto l’aspetto fisico, storico punto debole della nazionale transalpina di quegli anni. Si aprì un (breve) periodo d’oro per la Francia, che tuttavia si arrestò bruscamente al tramonto nel 1986, alla conclusione del mondiale dove i Galletti si piazzarono terzi. Il ritiro dal proscenio che conta dei vari Giresse, Bossis e Platini lasciò un vuoto incolmabile; in Federazione ci si rese all’improvviso conto che per porre più solide basi per il futuro si doveva puntare meno sull’aspetto fisico e più sulla tecnica individuale. Nel 1988, dunque, si abbandonò definitivamente Vichy per stanziarsi, in maniera stabile, a Clairefontaine, dove venne inaugurato, nel cuore della foresta di Rambouillet, il Centre Technique National Fernand Sastre, più comunemente conosciuto come l’INF di Clairefontaine, la fucina di giovani talenti più importante di tutta la Francia intera.
Grazie alle sue strutture all’avanguardia e i metodi di allenamento rivoluzionari, basati prevalentemente sulla tecnica individuale e sullo spirito di gruppo, l’accademia federale di Clairefontaine divenne ben presto il punto di riferimento per tutti i principali club francesi, che ne adottarono e condivisero la filosofia di base, da Nancy a Lione, passando per Monaco e Nantes. Inoltre, il successo del modello Clairefontaine indusse la Federazione a costruire altri tredici Pôles Espoirs sparsi per tutti i dipartimenti transalpini, rispettivamente ad Aix-en-Provence, Ajaccio, Castelmaurou, Châteauroux, Dijon, Liévin, Ploufragan, Reims, Saint-Sébastien-sur-Loire, Talence e Tomblaine, senza dimenticare i territori d’oltremare francesi, come Guadalupa e La Réunion, terra nativa di Dimitri Payet. La filosofia di Clairefontaine diede vita ad una generazione di talenti che nel 1998 alzò la Coppa del Mondo con i vari Deschamps, Desailly e Karembeu (tutti di scuola Nantes), e nel 2000 la Coppa Europea con i primi veri prodotti sfornati dai campi di Clairefontaine: David Trezeguet, Nicholas Anelka, Thierry Henry. Da quegli anni, fino ai giorni nostri – passando da una finale dei Mondiali persa ai rigori, nel 2006, contro l’Italia; e da un’altra finale, dieci anni più tardi, questa volta agli Europei, persa in casa contro il Portogallo – la nazionale francese è stata sempre ai vertici, escluso forse il solo biennio di transizione 2008-2010, del calcio continentale e mondiale, mettendo in luce tra i talenti più cristallini del globo, ultimo dei quali Kylian Mbappé.
Il modello Clairefontaine, quindi, ha tracciato la strada alle moderne accademie – federali e non solo – più importanti del calcio europeo. Il sistema di selezione dell’INF è particolarmente duro e selettivo, quasi elitario, quindi per certi versi controverso. I fattori discriminanti sono essenzialmente due: il talento, innanzitutto, ma anche la disciplina accademica, la tenuta mentale del giovane ragazzo che dovrà sottoporsi a duri allenamenti e stress-test sotto il profilo psicologico. Un aspetto, questo, che nei recenti anni ha tagliato clamorosamente fuori anche alcuni dei talenti attualmente più noti del panorama calcistico francese, come Anthony Martial, scartato dai tecnici federali di Clairefontaine in quanto ritenuto inadeguato sotto l’aspetto scolastico. Dall’altro lato della medaglia, un giocatore come Blaise Matuidi è stato invece selezionato più per le sue attitudini psicologiche che per l’effettivo talento coi piedi. Dei circa 2000 ragazzi che ogni anno si presentano alle selezioni, ne passano infine solo 23. Ciò non rappresenta un fatto strettamente negativo: le selezioni di Clairefontaine sono supervisionate dai talent scout delle squadre di calcio di mezza Francia; un ragazzo che non supera la ghigliottina dell’INF non è detto che non accalappi successivamente una chance in un’accademia calcistica di qualche club transalpino di livello, come appunto è accaduto a Martial con il Lione, o a N’Golo Kanté, anch’egli scarto di lusso della selezione di Montjoye. Clairefontaine, in ogni caso, è il centro magnetico dell’intera regione dell’Île-de-France e dei suoi dintorni. Le selezioni coinvolgono ragazzini che vanno dai 13 ai 15 anni, non più giovani e non più anziani. Questa, secondo i tecnici federali di Clairefontaine, è considerata la fascia d’età nevralgica per lo sviluppo di un calciatore. Gerard Houllier, che è stato, tra le altre cose, tecnico dell’INF, ha sostenuto che dopo i 16 anni l’abilità di un coach di influenzare le capacità di un calciatore è minima, racchiusa in uno spazio di miglioramento che non va oltre 20%. Oltre l’aspetto dell’età, i ragazzini ammissibili a Clairefontaine devono avere cittadinanza francese e devono risiedere o giocare nell’Île-de-France o nelle aree circostanti della Senna Marittima o dell’Eure, in Normandia. Una volta passata la selezione, i 23 prescelti dovranno affrontare un percorso triennale di crescita personale che prevede allenamenti nella tenuta di Montjoye dalla domenica al venerdì sera (lasciando libero giusto il weekend, per permettere ai giovani di giocare col proprio club di appartenenza), nonché la frequentazione della vicina scuola di Rambouillet. A tutti viene garantito vitto e alloggio, nel cuore della omonima foresta dove le distrazioni sono poche e le provocazioni di Parigi sono lontane come non mai: ciò che conta è lo spirito di gruppo, la condivisione e il comfort di un ambiente esclusivo, familiare, solidale, che per molti ragazzi provenienti dalle periferie multietniche dell’Île-de-France rappresenta una sorta di riscatto sociale.
La vera rivoluzione di Clairefontaine tuttavia non è tanto il format da college per formare i calciatori della nazionale francese del futuro, ma l’aspetto tecnico della formazione. Il pallone, la qualità del tocco, gli spazi e la gestione degli scenari di gioco sono al centro di tutto. Il gioco troppo fisico e i tackle ruvidi sono severamente puniti: l’anticipo è il precetto da rispettare. Il modulo di riferimento, adottato da tutte le selezioni giovanili francesi, è il 4-3-3, modello tattico che secondo i tecnici federali garantisce spaziature e modalità di gestione ottimali per lo sviluppo qualitativo del calciatore, esattamente come nelle scuole del Barcellona o dell’Ajax. I giovani talenti tuttavia cominceranno a giocare in partite 11 vs 11, a campo pieno, solo a partire dall’ultimo anno di formazione: prima, largo a partite 2 vs 2, 3 vs 3 o 4 vs 4, dove la palla viene toccata un numero elevato di volte e i ragazzi affinano le qualità del controllo e della gestione, ma anche della visione strategica. Una formazione elitaria, dunque, che i tecnici federali, attraverso appositi corsi ai coach di tutti i club di Francia, contano di diffondere su scala nazionale, al fine di installare un modello condiviso da tutte le principali accademie di football francesi: l’obiettivo è quello di creare il calciatore francese del futuro, in grado di vincere partite e titoli, un giorno, con Les Blues. Se si dà un occhio alla lunga lista di talenti usciti da Clairefontaine nel corso degli anni, la strada intrapresa sembra essere quella giusta: da Thierry Henry a Nicholas Anelka, da Louis Saha a William Gallas, da Blaise Matuidi a Kylian Mbappé, senza dimenticare chi è passato di qui per poi intraprendere altre strade, come Raphael Guerreiro, campione d’Europa in carica con la nazionale del Portogallo.
Non è errato affermare che Clairefontaine ha solcato il sentiero di una tendenza che, anche in altre nazioni, sta cominciando a maturare importanti frutti. Se Spagna e Germania non sono più le novità, altrettanto non si può dire per Inghilterra e Belgio, paesi le cui federazioni calcistiche hanno solo da pochi anni preso a riferimento filosofia e metodologie della FFF, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Se le nazionali di questi due paesi si giocano ora, proprio insieme alla Francia, le semifinali dei Mondiali di Russia, probabilmente non è un caso, ma i primi concreti risultati di una progettazione che, per quanto riguarda il Belgio, ad esempio, poggia le proprie basi sui primi anni del nuovo millennio. I concetti sono fondamentalmente i medesimi: formazione basata quasi esclusivamente sulla tecnica del giocatore, capillarità e penetrazione delle accademie su base nazionale, impronta tattica pressoché identica, con qualche leggera variazione. Dopo il fallimento di Francia ’98 ed Euro 2000, il Belgio di Michel Sablon andò in contro ad una ristrutturazione dell’intero sistema. Il primo frutto di quegli anni di rinnovamento in patria fu l’accademia all’avanguardia di un giovane club, il KRC Genk, da cui sono usciti nomi come Courtois, De Bruyne, Carrasco, e più recentemente anche Milinkovic-Savic e Leon Bailey. Chiamati a raccolta tutti tecnici federali della KBV, si decise che i moduli di riferimento delle varie selezioni giovanili della federazione di Bruxelles dovettero essere il 4-3-3 o il 3-4-3. Quest’ultimo è particolarmente apprezzato dal settore giovanile dell’Anderlecht, fucina dei così detti “Purple Talents” (di cui Romelu Lukaku è uno dei frutti più polposi), in quanto il più adatto ad avvicinarsi all’obiettivo ideale del 70% del possesso palla, almeno a livello giovanile. Anche qui, i tackle sono proibiti fino all’arrivo nell’under-21: il fine ultimo è quello di formare giocatori estremamente dotati tecnicamente, capaci di gestire con destrezza situazioni di difficoltà. Il Belgio dei grandi, tutt’oggi, gioca con una difesa a 3, peraltro condivisa con l’Inghilterra di Gareth Southgate. Inaugurato un nuovo centro federale a Tubize, comune del Brabante a 25 km da Bruxelles, Sablon si avvalse anche della collaborazione dell’Università di Lovanio per studiare scientificamente i metodi di formazione dei talenti del futuro, e soprattutto fondò una costellazione di otto accademie, chiamate Topsport, sparse per tutto il Belgio, in grado di organizzare periodici stage dove affinare la tecnica individuale dei giovani calciatori. Mezza nazionale belga attuale viene da lì: Courtois, De Bruyne, Witsel, Chadli, Mertens. Giocatori che oggi si giocano il Mondiale 2018, contro i vicini di casa francesi di Mbappé, Pogba e Varane.
La rivoluzione dell’Inghilterra possiede invece tempistiche più recenti, ma non meno efficaci, anche perché partita da solide basi di talento e dal ben imbottito cuscino di sterline del campionato più ricco al mondo, la Premier League. Quando, nel 2012, è stato aperto il nuovo centro federale di St. George’s Park, nella campagna dello Staffordshire, l’intento – nemmeno troppo velato – era quello di emulare l’idea vincente di Clairefontaine. Il nuovo centro, costato la bellezza di 105 milioni di sterline, è diventato la casa di tutte le 24 selezioni nazionali inglesi, calcio femminile compreso, mettendo un punto definitivo alla atavica improvvisazione logistica (e non solo) che, a livello giovanile, ha sempre caratterizzato la federazione d’Oltremanica. St. George’s Park, così come Clairefontaine, svolge dunque il ruolo di magnete, di centro catalizzatore per le varie selezioni, dove il ragazzino di 16 anni proveniente da Leyton che sogna di esordire con la maglia della prima squadra dei Tre Leoni può entrare in contatto con Harry Kane o con Jordan Henderson, rubandogli qualche consiglio e suggerimento. Il concetto è ben sintetizzato da Jermaine Jenas, ex-nazionale inglese, che in un contributo per BBC Sport nel 2017 ha splendidamente messo in luce il significato di una tale esperienza di condivisione: “L’unità e lo spirito di squadra possono fare la differenza nei grandi tornei, ma è un qualcosa che è probabilmente mancato all’Inghilterra negli ultimi anni. St. George’s Park potrebbe cambiare questo, nel futuro, stimolando quel senso di crescita in comune e senso di condivisione. Qui tutti i vari gruppi d’età vengono mischiati, entrando a contatto tra di loro. Per esempio, l’ultima volta ho visto Sterling, che è in prima squadra, chiamare Gomez [Joe Gomez, ora al Liverpool, all’epoca capitano dell’U21, ndr] per andare a giocare insieme alla playstation. Sono piccole cose, che tuttavia possono fare la differenza nella transizione di un giovane dall’Under 21 alla prima squadra”.
L’inaugurazione di St George’s Park è andata di pari passo con la profonda ristrutturazione del sistema giovanile di tutta l’Inghilterra, che ha rivoluzionato il format delle selezioni giovanili dei club di Premier League e di Football League: anche qui, la formazione tecnica viene posta al centro di tutto; la qualità del singolo viene valorizzata all’interno di un sistema dove il talento non viene più snaturato attraverso infiniti prestiti verso le serie minori nazionali. I risultati si sono subito visti, almeno a livello giovanile: l’Inghilterra, nel 2017, è diventata campione del mondo Under 17 e Under 20, nonché campione d’Europa Under 19. L’obiettivo – forse un po’ troppo sbandierato ai quattro venti – della FA, a livello senior, è quello di salire sul tetto del mondo entro Qatar 2022. Forse un target un po’ troppo ambizioso ma, vedendo dove è riuscita ad arrivare l’Inghilterra di Southgate – l’unica nazionale in grado di vantare una lista di convocati militanti solo nel massimo campionato inglese – nella Coppa del Mondo in corso, in fondo nemmeno troppo. Il tempo darà le sue risposte; nel frattanto, la generazione Clairefontaine sta dando i suoi primi frutti, non solo in Francia ma nel resto dell’Europa, fissando un modello che ha già aperto la strada al calcio del futuro.