Home Calcio 360º L’Aquila Bicefala e il labile confine tra Oriente e Occidente

L’Aquila Bicefala e il labile confine tra Oriente e Occidente

by Redazione Sport Time Calabria

Una testa ad Oriente, una ad Occidente. L’aquila bicefala è figlia dell’antica araldica dell’Impero Romano d’Oriente, simbolo inequivocabile di un universo cristallizzato nella storia, quello bizantino, che tuttavia ha lasciato tracce indelebili nel nostro presente. E’, tutt’oggi, il simbolo della Chiesa Ortodossa greca, dopo essere stato soppiantato per secoli dalla figura affilata della Mezzaluna ottomana, che ha irrimediabilmente creato profondi contrasti nello spirito di una vasta regione eternamente sospesa tra montagne rocciose e acqua salata. Nello sport, sempre in Grecia, è presente negli stemmi societari del PAOK di Salonicco e dell’AEK di Atene, ad eterna memoria di una diaspora che nella “greca” Costantinopoli ha le sue dolorose radici. Ma l’aquila bicipite figura anche nel drappo rosso sangue dell’Albania, in principio innalzato dall’eroe nazionale Giorgio Castriota Skanderbeg (Skënderbeu) in un’insurrezione, nel cuore tumultuoso del XV secolo, contro il dominio ottomano, poi rimasto in realtà pressoché intatto dal 1478 fino al 1878, anno della dissoluzione dell’Impero turco.

Il gesto effettuato da Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri, nazionali svizzeri di origine kosovara ed etnia albanese, dopo i gol segnati nel match mondiale contro la Serbia, incrociando i pollici e aprendo i palmi delle mani sul petto, rappresenta dunque un simbolo che nel corso della storia si è impregnato di una serie di sfumature più o meno intense, e dunque un emblema di straordinaria potenza comunicativa anche al giorno d’oggi, come si è potuto evincere dalla risonanza mediatica di un episodio che, in fin dei conti, si è svolto su un campo da calcio. Le gradazioni di quelle mani incrociate assumono inequivocabilmente tinte politiche, declinate dalla recente, sanguinosa storia che ha caratterizzato i Balcani. Una guerra, quella della penisola balcanica, che ha scavato ferite profonde e contrasti per nulla definiti nell’instabile scacchiere geopolitico europeo, disegnando i vettori delle più giovani migrazioni di massa intra-europee. Xhaka e Shaqiri sono infatti sì, a tutti gli effetti, nazionali e cittadini svizzeri, ma sono anche e soprattutto figli di immigrati kosovari trasferitisi nel paese alpino mentre il loro lembo di terra, incastonato nella dura terra balcanica, moriva lentamente, dissanguato.

I processi migratori partiti dai territori balcanici hanno avuto la loro origine negli anni ’60, ma hanno toccato il culmine di intensità tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni 90’, il periodo della dissoluzione dello stato jugoslavo dopo decenni di stabilità politica garantita da Tito. Nel giro di pochi anni, si era passati dal sogno di uno stato socialista, aperto al riconoscimento delle autonomie locali e alla tolleranza etnica, all’ideologia nazionalista, di stampo slavo, portata avanti dal leader serbo Slobodan Milošević, che provò a soffocare gli spiriti indipendentisti delle provincie autonome, tra cui quella del Kosovo della Macedonia e della Vojvodina. Il Kosovo versava in drammatiche condizioni di impoverimento e di crisi socioeconomica, dando sfogo ad una serie di tensioni, rivolte studentesche e proteste che culmineranno con la guerra del 1996. Molti kosovari di etnia albanese vennero imprigionati e torturati; tra questi, anche il padre di Granit Xhaka, Ragip, che sul finire degli anni ’80 venne incriminato per crimini contro il regime jugoslavo, per poi essere liberato dopo 3 anni di detenzione, scappando in seguito con la moglie Elmaze in Svizzera, dove ad accoglierli c’era una nutrita comunità di stampo albanese e kosovaro, tra cui i genitori di Valon Behrami e di Xherdan Shaqiri.

Nonostante siano cresciuti in Svizzera (Granit Xhaka vi è addirittura nato, come il fratello Taulant che veste la maglia dell’Albania), e dunque formatisi e maturati all’interno di un paese moderno ed avanzato, è quantomeno caratterizzante che due figli di immigrati si siano esposti a tal punto, davanti agli occhi di tutto il mondo, mostrando un attaccamento sviscerato per una terra che – di fatto – poco ha avuto a che fare, in senso pratico, con la loro vita quotidiana in Svizzera, se non per i rimandi, le tradizioni e i patrimoni dei rispettivi genitori e comunità. È un sentimento difficile da capire, un processo arduo da metabolizzare, ma in fondo logicamente plausibile: è la distanza che caratterizza l’identità, la lontananza storica che alimenta il mito e l’epica, l’intreccio tra passato e il presente che formano l’ideale moderno (europeo?) del meticciato. La recente storia europea è stata profondamente segnata da migrazioni (all’interno dello stesso continente) che hanno scolpito la moderna identità meticcia delle nuove generazioni, caratterizzate da un patrimonio di valori multietnici e multiculturali, da uno spirito multi-identitario. Dopo che il Kosovo, nel 2008, si è proclamato indipendente, e dopo che dal 2016 la sua federazione calcistica si è affiliata a UEFA e FIFA, molti giocatori di origine albanese e kosovara hanno deciso di vestire la maglia blu della neonata nazionale, ma altri, come Shaqiri e Xhaka, hanno comunque continuato a vestire la casacca del rispettivo paese d’adozione, in questo caso la Svizzera, in rappresentanza di quelle folte comunità che sono andate ad arricchire il patrimonio culturale, sociale e genetico dei paesi centro-europei. Ed è, appunto, una rappresentanza figlia di un tessuto sociale più complesso, che si fonda su più livelli identitari.

Può dunque, un tale gesto, essere giustificabile su un campo di calcio? Non per la sua accezione politica ed evidentemente provocatoria, tanto per cominciare, che nulla hanno a che fare con le dinamiche sportive del rettangolo verde. Per quanto riguarda il resto, tuttavia, ognuno tragga le sue conclusioni. Xhaka e Shaqiri sono due calciatori riconosciuti a livello internazionale, che militano nel campionato più famoso del mondo – la Premier League inglese – figli di una storia che non tutti, nel 2018, ancora conoscono, e rappresentanti di una generazione che sta caratterizzando sempre più profondamente il tessuto sociale europeo, come testimonia l’anima multietnica della grande maggioranza delle principali nazionali di calcio del continente. Lo sport, nella maggior parte dei casi, è stato il primo veicolo di accettazione e di integrazione di comunità che, giunte dai rispettivi paesi d’origine, hanno spesso e volentieri ricominciato dal basso, dai gradini più umili della scala sociale. Uno dei più importanti scrittori della letteratura moderna europea, Jean-Claude Izzo, rivendicava la condizione del meticciato come unico tessuto sociale possibile, riproponendo un’Europa nata ai bordi del Mediterraneo, che ha un avvenire solo nello sviluppo dell’anima multietnica e multiculturale di una terra senza apparenti confini.
“Se in merito siamo stati – e siamo tuttora – cechi fino all’autolesionismo, è perché la nostra presunzione di diversità non ha motivo alcuno di esistere. Il virus è presente anche in noi, sia pure in forma temporaneamente meno visibile. Anche in Occidente – dalla Catalogna alla Scozia, dal Belgio alla Grecia – l’Europa è piena di ringhiose identità avvitate su stesse, di anticentralismi frustrati, insofferenze etniche, rabbie metropolitane, vittimismi regionali e provinciali, nazionalpopulismi e microprotezionismi assolutamente identici fra loro eppure sicuri di essere unici nella loro diversità. Tutti pronti a farsi collettori di tensioni sociali e farsi cavalcare con ebete arrendevolezza dal primo capopopolo e da vecchie volpi trasformiste munite di giornali e tv. E tutti, ovviamente, certi del proprio incrollabile europeismo e dalla propria estraneità planetaria ai Balcani.” (Paolo Rumiz, Maschere per un massacro)

In una serata estiva di Kaliningrad, durante una partita di calcio, un gol ha fatto sobbalzare i cuori di Basilea e di Pristina. I confini tra Oriente ed Occidente si sono svelati in tutta la loro fragilità di cristallo.

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